La legge-bavaglio dimostra che Berlusconi si può fermare.

19 Giugno 2010 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Dunque, si può. Berlusconi può essere fermato, può essere costretto a precipitose ritirate. La sua ambizione cesaristica e il progetto post-costituzionale che l'accompagna si possono costringere nel solco dei principi costituzionali (del loro rispetto). È la buona notizia di questa storia della legge contro le intercettazioni (purtroppo ce n'è anche una cattiva) e vale la pena ragionarci su perché il congelamento (sine die?) di una legge liberticida e criminogena indica in modo scintillante un paio di cose non trascurabili o che molti hanno trascurato e trascurano ancora oggi.

Berlusconi non è il nostro Destino. Non è il Fato cui dobbiamo inchinarci, rassegnati, disposti a sopportare tutto, silenziosi perché travolti dalla "rassicurante frustrazione" di chi è stato espropriato finanche della capacità espressiva per rappresentare il proprio disagio. In questa occasione, un'opinione pubblica critica, ampi settori del mondo dell'informazione  –  questo giornale e i suoi lettori in testa  -, segmenti non irrilevanti della maggioranza, qualche presidio istituzionale e addirittura un'opposizione che ritrova le ragioni del suo esistere hanno trovato la forza di obbiettare il proprio dissenso sentendo come un sopruso quella legge.

Come una vergogna non opporvicisi; come un dovere civico impedire la distruzione del diritto dei cittadini alla sicurezza e all'informazione. Se Berlusconi non è una necessità ineluttabile, non è scritto allora nella pietra che la nostra democrazia debba essere fatalmente affidata a chi come il Cavaliere "vince di default e governa attraverso la demoralizzazione cinica" (Slavoj Zizek).

Sono due convincimenti che da oggi bisogna coltivare con cura e impegno perché la sconfitta che Berlusconi incassa non è soltanto lo stop a un disegno di legge. Il passo falso di oggi è anche il tracollo di un'idea politica che attribuisce il potere di una "decisione assoluta" a chi governa perché solo il comando diretto e indiscusso può assicurare la "governabilità" del Paese. Chi dissente da questo paradigma di governo o soltanto lo limita per dovere istituzionale o lo vaglia per impegno professionale e civile diventa – in questo quadro politico e, se si vuole, psicologico – il pericoloso agente del declino da affrontare. Ecco perché, nello slittamento del legittimo esercizio del potere verso un arbitrario diritto alla forza, Berlusconi avverte da sempre come un obbligo improrogabile intervenire contro la magistratura limitando l'uso delle intercettazioni o contro l'informazione promettendo il bavaglio a chi pubblica il testo di "un ascolto".

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Magistratura e informazione – i due ordini che, in un'equilibrata architettura di checks and balances, sono le istituzioni di controllo dei poteri – diventano "nemici" da ridurre a uno stato di costrizione perché impediscono al sovrano di governare, perché sorvegliano le sue decisioni e quella vigilanza è un ostacolo che crea uno status necessitatis, l'urgenza di un provvedimento legislativo che Berlusconi – va ricordato – avrebbe voluto fin dal quinto Consiglio dei ministri del suo governo con immediata forza di legge, costretto a una marcia indietro dal Capo dello Stato e dalla Lega, che avrebbe dovuto spiegare alla sua gente di aver negato le intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione.

Se la bocciatura del disegno di legge è anche la sconfitta di un'idea politica, si deve osservare che le nuove regole avrebbero voluto, sì, appesantire l'investigazione con intralci, intoppi, bizzarri obblighi soltanto per proteggere le pratiche più spregiudicate dei colletti bianchi, rendendo più fragile la sicurezza dei più deboli, senza proteggere davvero alcuna privacy, ma quella legge avrebbe dovuto codificare una sorta di "diritto positivo della crisi" che impone ossequio alla funzionalità delle decisione politica e dunque il silenzio ai giornalisti, onerose penitenze economiche agli editori non conformi e un'innocua agenda di lavoro al pubblico ministero.

Questo "presepio" non è piaciuto perché ridisegna una nuova forma costituzionale con un governo abusivamente armato di più poteri e un cittadino abusivamente privato dei suoi diritti. Il progetto fallisce non per l'inettitudine politica di Berlusconi, come argomenta Giuliano Ferrara, ma al contrario per l'abbagliante riverbero della sua politicità. Il Cavaliere posa ad antipolitico, ma chi può credergli? Alla politica classica la dignità che egli non riconosce, che palesemente disprezza è di stare al di là e al di sopra degli interessi particolari che agitano la società civile.

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Per il capo del governo, la politica non è altro che potere pubblico esercitato senza scrupoli a protezione, innanzitutto, dei propri interessi economici e, poi, dei gruppi, ceti, lobby che lo sostengono. È questa convinzione che rende necessaria la pretesa di immunizzarsi da ogni controllo; di rendere Legge la sua persona e le sue convenienze personali; indiscutibili le sue decisioni e scelte anche quando nomina un socius ministro soltanto per sottrarlo alla giustizia (è il caso di Aldo Brancher). I controlli della magistratura, dell'informazione hanno scovato e mostrato che cosa nasconde l'illusionismo pubblicitario del Cavaliere. Hanno ricomposto una realtà dissolta dal dominio mediatico del governo, illuminato il conflitto d'interessi che strangola il servizio pubblico della Rai, rivelato le miserie e il vuoto della sua affabulazione, la corruzione nascosta nel modello del trauma e del miracolo, dell'emergenza risolta con un prodigio. È infatti lo scandalo della Protezione civile che ha convinto Berlusconi a giurare il pubblico "mai più intercettazioni" perché quel sistema, affidato alla leadership amministrativa di Gianni Letta e alla guida tecnocratica di Bertolaso, è il prototipo del potere che egli pretende. È il dispositivo che anche pubblicamente egli invoca quando dice: "Per governare questo Paese ho bisogno dei poteri della Protezione civile".

È la politicità di questo disegno dunque che è stata rifiutata: questa volta non tutti hanno creduto che i personali interessi di Silvio Berlusconi fossero gli interessi del Paese e del "popolo" e meno che mai una battaglia per il diritto alla privacy. Il Cavaliere ha dovuto prendere atto che forzare la mano avrebbe messo a serio rischio il suo governo, le alleanze, il suo prestigio. È una buona notizia. Il programma di andare oltre la democrazia parlamentare verso un governo legittimato dal carisma e dal potere del Sovrano è stato fermato. È un buon inizio anche per affrontare la cattiva notizia. Berlusconi ci riproverà. Non ha altra alternativa per conservare se stesso che dissolvere non solo nei fatti, ma anche formalmente, l'equilibrio costituzionale e il principio di legalità. Sarà la battaglia d'autunno e ci sarà modo di parlarne.


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Pantaleo Gianfreda
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