Breve ma intensa vita di una radio libera

7 Giugno 2008 Off Di Pantaleo Gianfreda
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fotolagnaIn questo articolo Giuseppe Lagna ci racconta l'esperienza della prima ed unica radio libera di Collepasso negli anni '70.

-Pino, Pino! – mi chiamò l’arciprete davanti al Municipio – Sai, ho ascoltato la tua trasmissione; bravo, bravo davvero! Però, quell’aggettivo “immaginifico” non mi è piaciuto molto; te lo sei inventato lì per lì?

-Eh, don Salvatore! -gli risposi- Si vede che hai un vocabolario vecchio.

Non è che mi interessasse molto la diatriba sull’aggettivo con cui avevo decantato le lodi all’album “Automobili” di Lucio Dalla.

Il problema era un altro: avevo saputo che eravamo ascoltati anche dal potere clericale!

Già lo faceva il potere civile; mancava solo quello militare, ma, per fortuna, allora i carabinieri stavano a Parabita e lì la nostra radio non arrivava.

Montavamo un’antenna direzionale, puntata a nord, sicché le ultime case a sud del paese captavano a stento le trasmissioni, che, invece, giungevano “sparate” a Galatina, Cutrofiano e comprensorio.

Gino, radiotecnico di provata esperienza e, perciò, detto “valvolina”, aveva installato in un angolo dello studio di Giovanni, neoarchitetto, in via Roma, una radio abbastanza di qualità, accessoriata di due piatti per dischi, due microfoni e due cuffie; per ricevere le telefonate degli ascoltatori, c’era il telefono di casa.

Avevano subito aderito, con entusiasmo ad alternarsi alla consolle, il sottoscritto, insegnante elementare di ruolo già da qualche annetto e studente in pedagogia di lungo corso, e Mario, giovane diplomato alla scuola d’arte e studente all’accademia. Non mancavano, pure, puntatine libere da parte di amici, di cui il più frequente, ricordo, era Luigi, studente di architettura. Antonio, altro “artista”, aveva realizzato il “logo”: un Peanut al microfono.

La “linea” della radio, dati i tempi ed i soggetti, aveva presto preso una “brutta” piega, cioè a sinistra o, meglio, verso tutte le sinistre: la marxista-leninista, la radical-libertaria, la cristiano-popolare; il tutto condito da ventate di sana, irriverente goliardia.

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Per il parco musicale a disposizione, avevamo saccheggiato la discoteca di Flavio, studente di scienze politiche: c’era tutta la produzione in  vendita all’epoca ed avevamo solo l’imbarazzo della scelta.

Il bello era che la scelta cadeva quasi sempre su pezzi “massicci e incazzati”, che potessero darci la stura per lanciare i nostri anatemi e chiacchierare a lungo, anche prendendo in giro, bonariamente o no, elementi del potere internazionale, nazionale e, perché no, locale.

Dati sull’amministrazione (in pieno realizzo, allora, il sacco del territorio) provenivano dai consiglieri comunali d’opposizione del P.C.I., fra cui Anna, lettere moderne, antesignana dell’emancipazione femminile “in loco”.

Ma li citavamo appena, perché non si voleva appesantire l’ascolto; ed, invece, giù a raccontare con grandi risate le “perle” udite nei comizi, a divertirci con soprannomi, spesso venuti all’impronta.

Come non ricordare il famoso “capitechiumbu”, riferito naturalmente alle fattezze della testa del Sindaco, non certo alla sua intelligenza politica?

E Mario, che in continuazione ogni tanto declamava: “Ma il traguardo per primo lo tagliava sempre il sottoscritto!”, ascoltata per anni nei comizi del vecchio Sindaco, buon ciclista in gioventù.

Oppure da altri “Ma cosa volete che interessino a voi queste cose, a voi comunisti, senza Dio, marchisisti?”.

“Vengono a parlarci di pace, ma vi dico io qual è la pace dei comunisti: è la pace dei cimiteri!”.

“Al partito comunista, che parla di democrazia, gli diciamo: Ti conosco, mascherina!”.

E ancora “Se amare Dio, la patria, la famiglia, vuol dire essere fascisti, bene: Io sono fascista!”.

Tantissime, tutte realmente “altoparlantate” in piazza Dante: triste, ma uno spasso.

A queste, noi opponevamo le nostre, di perle, ossia citazioni per lo più di esponenti cattolici del dissenso; così ci piaceva.

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Ed ecco Camillo Torres, don Milani, l’”exploit” di padre Ernesto Balducci “La forza, quando viene dal basso, la chiamano violenza; se viene dall’alto, la chiamano mantenimento dell’ordine e della legge”.

E, per i più giovani, Gramsci “Studiate, perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza!”.

Insomma, dopo una settimana di trasmissioni a singhiozzo, già nella seconda l’orario si era stabilizzato: dalle quattordici alle venti, massacrante, ma non ci facevamo caso.

Ci giungevano richieste musicali, tantissime anche dai paesi vicini e, spesso, persino da ricoverati all’ospedale di Galatina.

Tra le fedelissime, poi, le operaie dell’Heleanna, vagito di manifatturiero spentosi in culla.

Ascoltavamo commenti entusiasti, pochi, che lasciavamo andare per intero; ma anche vere e proprie invettive di “benpensanti”, molte, che sfumavamo per legittima difesa, con il classico “Grazie, per aver chiamato!”.

Comprensibilissimo! Non potevano certo suscitare grandi consensi le “canzoni di rabbia” di Claudio Lolli, tipo “Prima Comunione”, i brani di Napoli Centrale, come “Campagna”, “La buona novella” di De Andrè o “La locomotiva” di Guccini “E contro i re e i tiranni scoppiava nella via la bomba proletaria e illuminava l’aria la fiaccola dell’anarchia”.

Piaceva, al contrario, a molti, anche a mio padre in campagna, il “revival” della musica popolare, per decenni marginalizzata; quando occorreva coprire lunghi tempi, abbondavamo, allora, con le Tammurriate della Nuova Compagnia di Canto Popolare e, precursore delle odierne “pizziche”, il nostro  Canzoniere Grecanico Salentino, con i loro canti “alla stisa”. Per i pop-rockettari vi erano grosse dosi di Jethro Tull, Canned Heat, Deep Purple, Pink Floyd e degli italiani New Trolls e Orme.

Ed, infine, non poteva mancare, come per ogni radio “che si rispetti”, il quiz, quasi sempre su canzoni, tipo “Il barattolo” di Gianni Meccia, che già allora definivamo vecchie, oggi siderali.

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Ma, verso la fine della terza settimana, venne a trovarci il proprietario delle apparecchiature; capimmo subito il motivo.

Le cose si mettevano veramente male e c’era da aspettarselo: quella era una radio libera sì, ma “clandestina”; e non so quanti reati di tipo amministrativo e, quindi, economico implicava la sua prosecuzione, oltre al costante rischio di querele da parte di privati.

Vabbè, ce n’erano allora a migliaia in tutt’Italia, ma si ritenne di non rischiare più di tanto: “Ma tu non vuoi lavorare?” – aveva già chiesto ironicamente qualcuno a Giovanni.

Cercammo, invano, un direttore responsabile e ci informammo sulle pratiche occorrenti per la registrazione della frequenza e presso la SIAE; ma tutto questo voleva dire, poi, snaturare il senso dell’iniziativa, legandoci mani e piedi al sistema.

Alle ore venti circa di un sabato di fine maggio del 1977, Gino e Giovanni stavano seduti su un salottino, mentre io e Mario eravamo in trasmissione.

Gino, forse un po’ commosso, mi disse: -Vai, Lagna, spara ‘sti ultimi colpi!

Allora, io salutai gli ascoltatori, dando loro appuntamento a “chissà quando”, e mandai in onda per l’ultima volta  “Honky tonk train blues” di Keith Emerson, la sigla di RADIO COLLEPASSO INTERNATIONAL.

Scendemmo in strada; al fresco della sera, ebbi netta la sensazione che una stagione irripetibile stava per concludersi: quella delle radio libere.

Di lì a poco, come sappiamo, sopravvissero solo quelle commerciali e “networkizzate”.

Chissà oggi cosa penserebbe di quest’ultimo termine il nostro vecchio arciprete!? 

Post scriptum:

E’ cosa buona e giusta che il lettore, specie se giovane, a fini di memoria storica, visiti su Internet i nomi degli autori e delle canzoni, citati in questo mio racconto breve, che dedico alla memoria di Giuseppe “Peppino” Impastato. 


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