È morto l’ultimo reduce italiano della Grande Guerra

27 Ottobre 2008 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Delfino Borroni aveva 110 anni e da anni viveva nella casa di riposo “Don Guanella” a Castano Primo, nel Milanese. Con probabilità gli saranno riservati gli onori militari o addirittura i funerali di Stato

Si è spento domenica, a 110 anni appena compiuti, Delfino Borroni, l’ultimo reduce italiano della Grande Guerra e l’ultimo cavaliere di Vittorio Veneto, l’onorificenza istituita dalla Repubblica nel 1968 per «esprimere la gratitudine della Nazione» a tutti coloro che avevano combattuto sul fronte durante la prima guerra mondiale per almeno sei mesi. Borroni era nato il 23 agosto del 1898 a Turago Bordone, in provincia di Pavia, ma da anni viveva nella casa di riposo Don Guanella a Castano Primo, nel Milanese, dove si era trasferito dopo il matrimonio.

ONORI MILITARI – Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha espresso profondo cordoglio per la sua scomparsa del bersagliere: «Desidero far pervenire alla famiglia del defunto – ha dichiarato il ministro – i sentimenti più profondi e la grande partecipazione delle Forze Armate per la grave perdita. Delfino Borroni, che era l'ultimo dei sopravvissuti della Grande Guerra e che aveva combattuto a Caporetto – ha proseguito La Russa – rimarrà un fulgido esempio di profondo attaccamento ai valori della Patria». Al fante saranno riservati i funerali di Stato. La cerimonia, che all'inizio avrebbe dovuto svolgersi nel Duomo di Milano, per desiderio della famiglia si terrà invece a Castano Primo, dove Delfino Borroni viveva con i suoi figli, Angelo, Pinuccia, Erminia e Maria e tredici pronipoti. La camera ardente è stata allestita lunedì pomeriggio nella sala consigliare del Comune di Castano Primo.

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CAPORETTO – Nel 1917, a diciannove anni, Delfino Borroni fu arruolato di leva nei bersaglieri ciclisti. Da allora combatté sul fronte dell’altopiano di Asiago, poi sul Pasubio e infine a Caporetto, dove visse l’esperienza delle trincee. Proprio a Caporetto fu fatto prigioniero, ma dopo qualche settimana riuscì a fuggire e a unirsi ad un battaglione italiano a cavallo. Finita la guerra, nel 1918 riprese a fare il meccanico, poi si sposò e si trasferì a Castano Primo, dove fu assunto come macchinista sul «Gamba de Legn», lo storico tram milanese. La seconda guerra mondiale la evitò proprio perché prestava pubblico servizio. Dopo la sua scomparsa, al mondo restano solo altri sette reduci del primo conflitto mondiale: tre in Gran Bretagna, due in Canada (tra cui una donna, Gladys Power, di 109 anni), uno in Australia, uno negli Stati Uniti.

TESTIMONIANZA – «Caporetto è stato il posto peggiore che ho visto durante la guerra» aveva sempre dichiarato il bersagliere, che grazie alla memoria vivissima in questi anni ha confidato le sue memorie a decine di storici, provenienti da tutto il mondo. «La vita in trincea era terribile – ricordava Borroni – Il freddo, la fame, il rombo delle granate, poi c’erano gli attacchi con il gas. Quando pioveva, poi, si aveva la tentazione di dormire, ma quello era il momento in cui un attacco era più facile, allora il capitano passava, con indosso il suo cappello nero e ci urlava di stare all’erta. Una sera dei soldati del suo battaglione fuggirono dall'accampamento per andare a trovare le loro mogli, che vivevano in un paese lì vicino. Furono scoperti e mandati davanti al plotone d'esecuzione, ma noi compagni impedimmo la loro morte urlando “allora ammazzateci tutti”, perché tanta era la nostalgia delle nostre famiglie». A Caporetto, anche il fante rischiò di morire. «Il sergente mi disse di uscire a vedere la situazione fuori dalla trincea. Io gli chiesi perché mandava a morire me che ero il più giovane e lui mi rispose che tutti gli altri avevano figli», raccontava il bersagliere. «Allora uscii strisciando, ma un proiettile mi colpì subito sullo scarpone. Mi finsi morto accanto a due cadaveri di altri soldati e quando gli austriaci se ne andarono, raggiunsi i miei compagni in ritirata. Il sergente mi prese la testa sulle ginocchia e pianse». Dopo qualche settimana, Delfino fu catturato. «Una volta, in prigione, cominciai a urlare, volevo scrivere alla mia famiglia che da sette mesi non aveva notizie – spiegava il veterano – L’ufficiale austriaco mi rispose: "io è da dieci anni che non torno a casa", ma poi mi diede un foglio e una penna».

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FUGA – Qualche mese dopo, la fuga. Dopo un giorno di marcia, alla sera, nella prigione, anche l’ufficiale romeno di guardia crollò dal sonno. Delfino fuggì e si unì a un battaglione italiano a cavallo, poi prese un treno che lo portò a Piacenza. Da lì, scrisse ai genitori, che lo raggiunsero. «Stavo riposando in una tenda, alzai gli occhi e vidi gli scarponi di mio padre. Mia madre lanciò un urlo così forte, che quasi mi moriva fra le braccia». I suoi racconti si trovano anche in Rete.


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Pantaleo Gianfreda