Il viaggio di due giovani collepassesi attraverso “la memoria e il ricordo” di guerre, foibe e campi di sterminio

10 Marzo 2018 Off Di Pantaleo Gianfreda
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L’ingresso, oggi, dell’ex campo di concentramento nazista di Terezín (Rep. Ceca)

Dal 15 al 21 febbraio io ed Alessandro Coroneo abbiamo partecipato, grazie ad un bando comunale, al viaggio “La memoria e il ricordo”, in compagnia di altri trenta giovani di età compresa tra i 18 e i 35 anni.

Il progetto “La memoria e il ricordo” non è un semplice viaggio, ma un itinerario attraverso le pagine più buie della nostra storia e si pone l’obiettivo di sensibilizzare i giovani sul dramma della guerra.

Noemi Verducci e Alessandro Coroneo

La nostra prima tappa è il Friuli Venezia Giulia e, in particolare, Trieste, da cui iniziamo il nostro sentiero di pace, così chiamato il percorso lungo i luoghi teatro della Grande Guerra. Proprio dalla volontà di non dimenticare nasce questo itinerario, un vero e proprio museo a cielo aperto, che inizia con la visita del Sacrario militare di Redipuglia, luogo simbolo della prima guerra mondiale. L’altopiano carsico, infatti, fu protagonista di terribili scontri, resi celebri anche dagli strazianti versi del poeta Ungaretti, che ben esprimono le sofferenze dei soldati costretti a combattere nelle trincee, pezzi delle quali sono ancora oggi presenti nel territorio del Carso. 

Costruito nel 1938, il Sacrario è il più grande cimitero militare d’Italia, il cui fulcro è rappresentato da una solenne scalinata che ospita le spoglie di 100.000 militari caduti durante la guerra con i loro nomi incisi su lapidi di bronzo. In pieno ventennio fascista, l’intento del Sacrario era quello di accrescere l’amore per la patria attraverso il ricordo dei soldati morti, come si comprende dalla targa posta all’uscita che recita: “O viventi che uscite, se non vi sentite più sereno e più gagliardo l’animo, voi sarete venuti qui invano”. Percorrendo alcune centinaia di metri è possibile raggiungere la Dolina dei Cinquecento, così chiamata perché qui fu ritrovata una fossa comune contenente il corpo di cinquecento soldati e luogo, anche, di un ospedaletto da campo, in cui si assistevano i feriti più gravi.

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Il Friuli Venezia Giulia è tristemente noto per le foibe e per l’esodo di centinaia di migliaia di italiani costretti ad abbandonare i territori di Istria e Dalmazia. Questa pagina nera della storia italiana è ancora una ferita aperta, come trapela dalle parole piene di rabbia della nostra guida, il signor Alessandro Altin, esule istriano di seconda generazione. Attraverso il suo racconto veniamo a conoscenza delle tragedie ancora poco note e spesso nascoste che si sono consumate in questi territori, delle storie di “italiani dimenticati in qualche angolo della memoria, come una pagina strappata dal grande libro della storia”, come canta Cristicchi. Quasi 300 mila italiani hanno dovuto abbandonare le loro terre, le loro città ed emigrare per poter mantenere la loro identità italiana.

Ci rechiamo, quindi, alla Foiba di Basovizza, l’unica rimasta su territorio italiano ed oggi monumento nazionale, visitato dalle più alte cariche dello Stato il 10 febbraio, giorno del ricordo. Le foibe sono profonde cavità carsiche naturali in cui tra il 1943 e il 1947 vennero gettati migliaia di italiani. Le vittime venivano legate con il fil di ferro ai polsi, l’una con l’altra a gruppi. Solitamente soltanto il primo del gruppo veniva fucilato in superficie e quest’ultimo, cadendo, trascinava con sé tutti gli altri, i quali precipitavano ancora vivi. Non si hanno i numeri precisi delle vittime, così come non si è mai arrivati al riconoscimento dei cadaveri, dovuti ai vari tentativi di occultamento effettuati negli anni, con il proposito di nascondere questa parte di storia. Il calcolo che si fece per la Foiba di Basovizza fu brutale: furono ritrovati 500 metri quadri di resti umani e, di conseguenza, si calcolò in maniera approssimativa che i morti che quello spazio poteva contenere dovevano essere tra i 2000 e i 3000.

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La nostra ultima visita a Trieste riguarda la Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio in territorio italiano. L’edificio, nato come stabilimento per la pilatura del riso, fu trasformato in lager nazista, utilizzato per smistare i detenuti nei campi della Polonia, ma anche per eliminare prigionieri politici ed ebrei. All’interno è presente un interessantissimo museo interattivo, con diverse testimonianze dell’epoca che ci fanno capire come la follia nazista non colpiva solo il popolo ebraico bensì chiunque si considerasse “diverso”.

Una tappa importante del viaggio è quella di Praga, città vessata prima dall’occupazione nazista e poi dal regime comunista sovietico. Le ferite lasciate dai regimi totalitari sono ben visibili a livello architettonico ma la guida, con orgoglio, ci racconta di quanto il popolo ceco sia combattivo e si lasci difficilmente dominare, come testimoniano la rivolta di Praga del ’45 contro i nazisti e la Primavera di Praga del ’68 contro l’Unione Sovietica. A 60 km da Praga, raggiungiamo il campo di concentramento di Terezìn.

La prima cosa che colpisce è l’enorme cimitero in cui si ergono da un lato una grande croce in legno e dall’altro un altrettanto imponente Stella di David.

Vedere con i propri occhi questi luoghi di indicibile sofferenza, da me conosciuti solo attraverso i libri di storia, è un’esperienza forte ed emozionante al tempo stesso. Questa sensazione viene accresciuta dall’ironica scritta “Arbeit macht frei” (“il lavoro rende liberi”), posta all’ingresso del campo. Oltre a vedere i terribili dormitori, le celle di isolamento in cui venivano rinchiusi non solo ebrei, ma ogni tipo di persona di “razza inferiore”, percorriamo il lunghissimo tunnel sotterraneo, attraversato dai condannati a morte per recarsi al plotone d’esecuzione. Impossibile non pensare all’angoscia che doveva pervadere i prigionieri, colpevoli solo di avere diverse idee politiche, diversi credi religiosi, o colpevoli di essere nati nel posto sbagliato al momento sbagliato.

L’ingresso di Terezín, quando era campo di concentramento nazista

Essere testimoni di queste esperienze ci carica di una nuova responsabilità, quella di trasmettere tutto ciò che abbiamo vissuto e di evitare che si ripeta, dovrebbe renderci incapaci di continuare a tollerare i crimini contro l’umanità, avendo visto in prima persona ciò che la follia umana è in grado di fare.

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Tuttavia, i terribili fatti di attualità dimostrano che la storia non è affatto magistra vitae, come credevano gli antichi Romani, perché non abbiamo imparato assolutamente niente dai nostro errori dal momento che questi stermini hanno solo cambiato posizioni geografica e nomi, ma non sono cessati. Non si tratta più del genocidio del popolo ebraico, ma di quello dei Rohingya in Myanmar, degli Armeni, dei Curdi, dello sterminio della popolazione siriana a Ghouta, solo per citare i drammi più recenti, che stanno passando quasi nell’indifferenza generale, mentre noi fingiamo di indignarci ogni anno nel Giorno della memoria.

Noemi Verducci


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