25 anni fa moriva Enrico Berlinguer

11 Giugno 2009 Off Di Pantaleo Gianfreda
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enrico_berlinguerUn ricordo, tra lo storico e il personale, del grande politico italiano, morto a Padova l'11 giugno 1984, in seguito ad un ictus avuto durante un comizio per le elezioni europee del 17 giugno 1984. Berlinguer ha avuto una grande influenza sulla politica italiana e sulle scelte di molti giovani ad iscriversi al P.C.I. Politico eccezionale, dotato di grande carisma, uomo serio e di grande rigore, lanciò l'idea del "compromesso storico" e fece della "questione morale" una della sue principali battaglie per il rinnovamento della politica.

Non dimenticherò mai quel giorno. Quando morì Berlinguer, l’11 giugno 1984, ero a Teramo. Pochi giorni prima, avevo accompagnato in macchina i miei genitori da mia sorella Ester, che abitava in quella città. Ci rimasi per giorni, bloccato a letto da una broncopolmonite.

Mi sembra come se fosse oggi. Ero a letto, sofferente, quando si diffuse la notizia.

Il 7 giugno, in vista delle elezioni europee del 17 giugno, mentre effettuava un appassionato comizio a Padova, Berlinguer venne colpito da un ictus. Si apprestava a pronunciare la frase “Compagni, lavorate tutti, casa per casa, strada per strada, azienda per azienda”. Evidentemente provato dal malore, continuò il discorso fino alla fine, nonostante che la folla urlasse: “Basta, Enrico!”. Le persone che lo stavano ascoltando lo trasportarono in albergo, dove si addormentò sul letto della sua stanza, entrando subito in coma. Venne, poi, trasportato in ospedale, ma i soccorsi furono vani: alle ore 12.45 dell’11 giugno, Berlinguer morì.

Il Presidente della Repubblica Pertini, che si trovava a Padova per ragioni di Stato, si recò in ospedale per constatare le condizioni di Berlinguer. Fece in tempo ad entrare in stanza per vederlo e baciarlo sulla fronte. Poche ore dopo il decesso, si impose per trasportare la salma sull'aereo presidenziale, affermando: “Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta”. Commovente fu il suo saluto al funerale (13 giugno), al quale partecipò circa un milione di persone: Pertini si chinò sopra la bara di Berlinguer, baciandola.

Il rapporto di stima e simpatia tra questi due grandi uomini di sinistra – Berlinguer e Pertini -, oltre la colleganza dei valori che connotava la loro azione politica, era notoria.

Ho avuto la fortuna di conoscerli, seppur fugacemente, entrambi, di stringere con orgoglio le loro mani: nel 1979 a Pertini, nella Prefettura di Lecce, nella mia qualità di giovane presidente provinciale della Confcoltivatori; nel 1983 a Berlinguer, in visita a Lecce per una campagna elettorale, quando ero nella segreteria provinciale del PCI.

I funerali di Berlinguer furono impressionanti. Il corteo con la bara, accompagnato dalla musica dell'Adagio di Albinoni, sfilò dalla sede del PCI, in via delle Botteghe Oscure, a piazza S. Giovanni, rendendo così palese l'ammirazione che una larga parte dell'opinione pubblica italiana aveva nei suoi confronti. Persino il segretario del MSI Giorgio Almirante si recò a rendere omaggio al feretro dell’avversario suscitando lo stupore della folla in coda per entrare nella camera ardente. Non è un caso che oggi il presidente della Camera Fini abbia ricordato con commozione la figura di Berlinguer.

Bloccato nel mio letto a Teramo, vissi quei giorni dell’agonia e della morte di Berlinguer con intensa commozione e partecipazione, incollato alla televisione. Piansi lungamente. Come avessi perduto un padre. E, come me, piansero milioni di italiani.

Nelle elezioni europee del 17 giugno 1984 il PCI, per la prima ed unica volta nella sua storia, sorpassò, seppur di poco, la DC, affermandosi come primo partito italiano (33,3% contro quasi il 33,0%). Precedentemente, con Berlinguer, il PCI nel 1976 aveva toccato il massimo storico del 34,4%. Risultati che mai più la sinistra ha toccato in Italia.

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Nonostante fossi ancora malato e il medico mi sconsigliasse il viaggio, volli tornare ad ogni costo a Lecce, dove allora abitavo ed avevo la residenza. Mia moglie venne a Teramo per “prelevarmi”. Guidò lei l’auto sino a Lecce. La commozione per la morte di Berlinguer superava ogni preoccupazione per la mia salute. Non potevo mancare all’appuntamento con il voto. Nel ricordo di Berlinguer. Era l’unico modo che avevo per dimostrare tutto il mio dolore per quella morte prematura e l’affetto per un uomo che mi aveva convinto ad entrare nel partito comunista.

La mia generazione era stata ammaliata da Berlinguer. La mia scelta per il PCI, come quella di tanti altri giovani, agli inizi degli anni ’70, fu dovuta alla figura e al carisma di Berlinguer.

Io provenivo da una breve esperienza di giovane democristiano prima e, poi, di militante nel movimento cattolico di sinistra del MPL (Movimento politico dei lavoratori), l’emmepielle di Livio Labor, già presidente nazionale delle Acli. Nel 1972, dopo il fallimento elettorale di quell’esperienza, fui, insieme ad altri giovani ed ex militanti del MPL, protagonista del processo nazionale di adesione al PCI. Coordinava questo processo Tonino Tatò, anche lui di matrice cattolica, storico segretario e braccio destro di Berlinguer.

Ricordo, dopo il fallimento del MPL, la diaspora e l’indecisione di molti di noi. A Collepasso quel movimento aveva aggregato decine e decine di giovani che per la prima volta si avvicinavano alla politica. Fu una splendida stagione di “risveglio” e di autocoscienza giovanili. A Collepasso, dominata in quegli anni dalla D.C., più che la sinistra extraparlamentare, aveva fatto breccia, tra i giovani, la nostra iniziativa politica giovanile di “cattolici critici” e di “cattolici del dissenso”. Era un modo originale e democratico per contestare “l’odiosa D.C.”. Tanti, che successivamente fecero scelte diverse, ritornando anche nella D.C., provenivano e provengono da quell’esperienza. Sarebbe interessante, prima o poi, scrivere qualcosa su quel periodo collepassese che va dal 1969 al 1972.

Per coloro, come me ed altri, che avevano mantenuto la loro scelta di campo a sinistra, l’indecisione, almeno apparente, era tra il PSI di De Martino e il PCI di Berlinguer. Livio Labor ed altri (quasi tutto il gruppo dirigente nazionale: Acquaviva, Covatta, ecc.) avevano scelto il PSI. Ricordo la “corte” spietata che ci faceva l’avv. Antonio Sindaco, allora segretario del PSI di Collepasso, per convincerci ad entrare in quel partito. Ci turbava, però, l’alleanza con la “corrotta D.C.” (ricordo ancora l’inno MPL per le elezioni politiche del 7 maggio 1972: “Il 7 maggio non farti ingannare, MPL dovrai votare, movimento politico dei lavoratori per condannare la corrotta DC”). Benché fossero allettanti le profferte per entrare nel PSI, alla fine quasi tutto il gruppo dirigente fondatore dell’ex MPL di Collepasso – io, Vito, Enzo, Silvano, Cosimino e tanti altri – decise, nel dicembre del 1972, l’adesione al PCI.

Nessuno di noi era marxista o comunista in senso stretto. Né ci attraeva in modo particolare il c.d. “socialismo reale” o le “gloriose realizzazioni” del socialismo sovietico. Io, anzi, anche all’interno del PCI, rimasi sempre critico nei confronti dell’esperienza sovietica. Ci affascinava, però, la figura di Berlinguer. Il suo rigore. La sua serietà. La sua proposta politica. L’idea (forse l’illusione) di realizzare e costruire un’altra Italia. E anche un’altra Collepasso (nelle elezioni amministrative del 1975, il PCI passò da 1 a 4 consiglieri su 20). Il sistema di potere realizzato dalla DC a Collepasso e nel Mezzogiorno era qualcosa di pesante e soffocante. Nel PCI di Berlinguer ci sentivamo più “coerenti” con la nostra precedente esperienza.

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Nel PCI salentino di quegli anni, ebbi modo di ritrovare tanti miei compagni che avevano con me frequentato il seminario di Otranto. Ed è strano (ma non tanto, per chi ha conosciuto veramente quel PCI e Berlinguer) come quel partito attirasse a sé tanti giovani provenienti dal mondo cattolico. Nel PCI, più che nella DC, ci sembrava di trovare più coerenza politica verso quei valori cristiani ai quali eravamo stati educati.

Certo, l’esperienza nel PCI non è stata tutta “rose e fiori”. Anzi. Però, Berlinguer aveva la capacità di farti sentire parte importante di un progetto di rinnovamento dell’Italia, di un’originale esperienza di socialismo nazionale, di un cambiamento possibile anche per il Mezzogiorno. E poi, il rigore morale, la “diversità” del militante comunista, un modo generoso di intendere la politica senza tornaconto personale, l’impegno “missionario” per la società e tant’altro: erano tutti “valori” che connotavano la direzione di Berlinguer. Certo, guardando indietro, mi accorgo dei tanti errori commessi e delle tante illusioni cadute. E anche dei tanti furbi cresciuti all'ombra del PCI.  Berlinguer, però, con il suo carisma, aveva “contagiato” la nostra generazione.

Come ho detto prima, ho avuto modo di conoscere Berlinguer in occasione di una sua venuta a Lecce, nel 1983. Nel Palazzetto dello Sport, dove egli intervenne, ero stato incaricato, insieme ad altri compagni, del suo servizio d’ordine. Ero alle sue spalle, sul palco, mentre egli interveniva. Mi affascinava quella figura minuta e austera. Quel sorriso timido e sornione. Quel suo modo “ragionato” e lineare di parlare. Quella faccia mediterranea tenera e severa, pulita ed onesta. Mi rimase impresso un “dettaglio”. Mi accorgevo che, prima di sorseggiare un po’ d’acqua mentre parlava, Berlinguer versava nel suo bicchiere “qualcosa” da una piccola bottiglia. Seppi poi che versava nell’acqua qualche goccio di whisky, per “aiutare” le sue corde vocali a rimanere integre e fresche. Forse, fu, quello, l’unico contatto diretto che ho avuto con Berlinguer, del quale ho, naturalmente, seguito tanti suoi interventi televisivi e alcuni comizi nelle Feste nazionali de L’Unità.

Ricordo come fossi fortemente intimidito da quella figura. Berlinguer aveva carisma vero. Per noi, ancora giovani non disincantati e per tanto popolo comunista, era come un “papa”. Nell’occasione della sua venuta a Lecce, nonostante fossi a 2-3 metri da lui, riuscì a malapena a profferire parola. Ero intimidito ed ed emozionato.

Lo stesso effetto, ricordo, mi faceva Aldo Moro, che ho avuto la fortuna di conoscere ed ascoltare molte volte nel corridoio della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma, dove io frequentavo. Insegnava Procedura penale (se non ricordo male), ma io non ero iscritto al suo corso. Alla fine delle lezioni, però, nonostante i suoi impegni di governo (all’epoca era ministro degli Esteri), egli si intratteneva costantemente con gli studenti per circa un’oretta/mezzora. In quel capannello che si formava puntualmente alla fine delle sue lezioni, fuori dall’aula, io tendevo l’orecchio per catturare le poche e scarne parole di Moro. Preferiva ascoltare quello che gli dicevano gli studenti. Solo una volta ebbi il coraggio di una veloce battuta sulle comuni e contigue origini salentine. Ricordo il buon maresciallo Oreste Leonardi, sua ombra e caposcorta, trucidato dai brigatisti il 16 marzo 1978 in via Fani. Con lui conversavo e scherzavo facilmente e lungamente, senza inibizioni o timidezze. Ricordo ancora il suo sorriso aperto, la sua simpatia e la sua vitalità. Mi sembra di rivivere ancora oggi quei momenti di felice spensieratezza e di battute.

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Berlinguer e Moro: persone schive e riservate. Uomini di alto valore politico e morale. Ad osservare certi politici di oggi, c’è da rimanere costernati per il degrado in cui è caduta la politica italiana.

Berlinguer e Moro: uniti anche nel destino da una morte prematura.  Ero a Roma, alla scuola di partito delle Frattocchie, quando Moro fu assassinato. Luciano Gruppi ci convocò per comunicarci con emozione e solennità il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani, tra le sedi nazionali della DC e del PCI, e ci invitò a partecipare alla manifestazione indetta al Colosseo. Appollaiato sui terrapieni dei Fori Imperiali, da dove si dominava la piazza, mi è rimasto impresso un episodio altamente simbolico. In quella piazza gremita di gente e dominata dalle bandiere rosse, improvvisamente, da via Merulana, avanzò nella piazza un drappello di manifestanti con poche bandiere bianche della Democrazia cristiana: rispettosamente, come il Nilo di fronte a Mosé, la piazza "si aprì" per far passare e rendere onore a quelle poche bandiere.

Berlinguer e Moro: uniti dal profondo amore verso il proprio Paese. Ho sempre condiviso, sin dal primo momento, la proposta berlingueriana del compromesso storico, della necessità politica, cioé, di una forte alleanza di governo tra forze cattoliche, comuniste e socialiste per modernizzare l’Italia. Si fosse realizzata veramente quell’idea, forse oggi l’Italia sarebbe diversa.

Certo, nell’azione politica di Berlinguer vi sono state, a mio parere, anche azioni politiche non condivisibili. Le varie considerazioni mi porterebbero lontano.

Io, che ho sempre stimato e amato Berlinguer, avvertivo, a cavallo degli anni ’70-’80, un certo disagio nel capire la sua complessiva azione politica. I tempi cambiavano e Berlinguer, forse, avrebbe dovuto avere più coraggio. Dopo le sue storiche prese di posizione sulla realtà dell'Unione Sovietica, egli avrebbe dovuto accelerare i tempi del “partito nuovo” nazionale, staccato dal movimento comunista e legato al movimento socialista internazionale. Alcuni storici affermano che Berlinguer era intenzionato a procedere al cambiamento del nome del partito, ma che era terrorizzato dalle conseguenze che questo avrebbe potuto avere sul suo popolo. Anche nel rapporto con il PSI, Berlinguer ha, probabilmente, compiuto degli errori. Dal mio punto di vista, nel Partito non si coglieva appieno la sfida al rinnovamento che Craxi lanciava alla società italiana e a tutta la sinistra. Il discrimine tra Craxi e Berlinguer fu, però, la “questione morale”. In questo Berlinguer aveva visto giusto ed anzitempo. Senza la “questione morale” che già covava nel PSI, forse Berlinguer avrebbe aderito alla grande idea craxiana dell’Unità socialista, che anch'io condividevo, insieme a quella della "Grande Riforma".

Alla morte di Berlinguer, il PCI commise un errore storico. Non ebbe il coraggio di scegliere come suo successore, come tanti di noi auspicavano, un uomo come Napolitano o Lama e si riversò, per pure logiche conservatrici e di potere interno, sul buon e colto Alessandro Natta.

Forse, la storia della sinistra italiana sarebbe stata diversa se a Berlinguer fosse succeduto Napolitano o Lama. Anzi, sicuramente.

Mi fermo qui. Analisi e considerazioni politiche e storiche di varia natura mi porterebbero a scrivere ancora a lungo. Ma, forse, certe considerazioni interessano a pochi.

Il giorno dei funerali di Berlinguer, l’Unità titolò: “Ciao, Enrico”.

Anche oggi, a 25 anni dalla sua morte, insieme a tanti, ripeto quel saluto all’incomparabile politico e maestro: “Ciao, Enrico”.


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